Clara, non pregare per me! Sono dannata!

Clara, non pregare per me! Sono dannata!Clara, non pregare per me! Sono dannata!

Clara e Annetta, giovanissime, lavoravano in una ditta commerciale a (***), in Germania. Non erano legate da profonda amicizia, ma da semplice cortesia. Lavoravano ogni giorno l’una accanto all’altra e non poteva mancare uno scambio di idee. Clara si dichiarava apertamente religiosa e sentiva il dovere d’istruire e richiamare Annetta, quando questa si dimostrava leggera e superficiale in fatto di religione. Trascorsero qualche tempo assieme; poi Annetta contrasse matrimonio e si allontanò dalla ditta. Nell’autunno di quell’anno, Clara trascorreva le vacanze in riva al Lago di Garda. Verso la metà di settembre la mamma le mandò dal paese natio una lettera: «È morta Annetta. è rimasta vittima di un incidente automobilistico. L’hanno sepolta ieri nel Waldfriedhof». La notizia spaventò la buona signorina, sapendo che l’amica non era stata tanto religiosa. Era preparata a presentarsi davanti a Dio?… Morendo all’improvviso, come si sarà trovata?… L’indomani ascoltò la santa Messa e fece anche la Comunione in suo suffragio, pregando fervorosamente. La notte, dieci minuti dopo la mezzanotte, ebbe luogo la visione…

«Non pregare per me: sono dannata»!
Clara, non pregare per me! Sono dannata! Se te lo comunico e te ne riferisco piuttosto lungamente, non credere che ciò avvenga a titolo d’amicizia. Noi qui non amiamo più nessuno. Lo faccio come costretta. Lo faccio come «parte di quella potenza che sempre vuole il male e opera il bene». In verità vorrei vedere anche te approdare a questo stato, dove io ormai ho gettato l’ancora per sempre. Non stizzirti di questa intenzione.

Qui, noi pensiamo tutti così. La nostra volontà è impietrita nel male, in ciò che voi appunto chiamate «male». Anche quando noi facciamo qualche cosa di «bene», come io ora spalancandoti gli occhi sull’inferno, questo non avviene con buona intenzione. Ti ricordi ancora che quattro anni fa ci siamo conosciute a (***), Allora avevi ventitré anni e ti trovavi là già da mezzo anno quando ci arrivai io. Tu mi hai levata da qualche impiccio; come principiante, mi hai dato dei buoni indirizzi.

Ma che vuol dire «buono»? Io lodavo il tuo «amore del prossimo». Ridicolo! Il tuo soccorso derivava da pura civetteria, come, del resto, io sospettavo già fin d’allora. Noi non conosciamo qui nulla di buono. In nessuno. Il tempo della mia giovinezza lo conosci. Certe lacune le riempio qui. Secondo il piano dei miei genitori, a dire il vero, non sarei neanche dovuta esistere. Capitò loro appunto una «disgrazia». Le mie due sorelle avevano già quattordici e quindici anni, quando io venni alla luce. Non fossi mai esistita! Potessi ora annientarmi, sfuggire a questi tormenti! Nessuna voluttà uguaglierebbe quella con cui lascerei la mia esistenza; come un vestito di cenere, che si perde nel nulla.

Ma io devo esistere. Devo esistere così, come mi sono fatta io: con una esistenza fallita. Quando papà e mamma, ancora giovani, si trasferirono dalla campagna in città, ambedue avevano perduto il contatto con la Chiesa. E fu meglio così. Simpatizzarono con la gente non legata alla Chiesa. Si erano conosciuti in un ritrovo danzante e dopo sei mesi «dovettero» sposarsi. Nella cerimonia nuziale rimase attaccata a loro tant’acqua santa, che la mamma si recava in chiesa alla Messa domenicale un paio di volte l’anno. Non mi ha mai insegnato a pregare davvero.

Si esauriva nella cura quotidiana della vita, benché la nostra situazione non fosse disagiata. Parole, come «Messa», «istruzione religiosa», «Chiesa», le dico con una ripugnanza interna senza pari. Aborrisco tutto questo, come odio chi frequenta la Chiesa e in genere tutti gli uomini e tutte le cose.

Odio verso Dio
Da tutto, infatti, ci deriva tormento. Ogni cognizione ricevuta in punto di morte, ogni ricordo di cose vissute o sapute, è per noi una fiamma pungente. E tutti i ricordi ci mostrano quel lato che in essi era grazia e che noi di sprezzammo. Quale tormento è questo! Noi non mangiamo, non dormiamo, non camminiamo con i piedi. Spiritualmente incatenati, guardiamo inebetiti «con urla e stridore di denti» la nostra vita andata in fumo: odiando e tormentati! Senti? Noi qui beviamo l’odio come acqua. Anche l’uno verso l’altro. Soprattutto noi odiamo Dio. Te lo voglio rendere comprensibile. I beati in Cielo devono amarlo, perché essi lo vedono senza velo, nella sua bellezza abbagliante.

Ciò li beatifica talmente, da non poterlo descrivere. Noi lo sappiamo, e questa cognizione ci rende furibondi. Gli uomini in Terra, che conoscono Dio dalla creazione e dalla Rivelazione, possono amarLo; ma non ne sono costretti. Il credente – lo dico digrignando i denti – il quale, meditabondo, contempla Cristo in croce, con le braccia stese, finirà con l’amarLo. Ma colui, al quale Dio si avvicina solo nell’uragano, come punitore, come Giusto Vendicatore, perché un giorno fu da lui ripudiato, come avvenne di noi. Costui non può che odiarLo, con tutto l’impeto della sua malvagia volontà, eternamente, in forza della libera accettazione con la quale, morendo, abbiamo esalato l’anima nostra e che neppure ora ritiriamo e non avremo mai la volontà di ritirarla.

Comprendi ora perché l’inferno dura eternamente? Perché la nostra ostinazione giammai si scioglierà da noi. Costretta, aggiungo che Dio è misericordioso persino verso di noi. Dico «costretta», poiché anche se dico queste cose volutamente, pure non mi è permesso di mentire, come volentieri vorrei. Molte cose le affermo contro la mia volontà. Anche la foga d’improperi, che vorrei vomitare, la devo strozzare. Dio fu misericordioso verso di noi col non lasciare esaurire sulla Terra la nostra malvagia volontà, come noi saremmo stati pronti a fare. Ciò avrebbe aumentato le nostre colpe e le nostre pene. Egli ci fece morire anzi tempo, come me, o fece intervenire altre circostanze mitiganti. Ora Egli si dimostra misericordioso verso di noi col non costringerci ad avvicinarci a Lui più di quanto lo siamo in questo remoto luogo infernale; ciò diminuisce il tormento.

Ogni passo che mi portasse più vicino a Dio, mi cagionerebbe una pena maggiore di quella che a te recherebbe un passo più vicino ad un rogo ardente. Ti sei spaventata, quando io una volta, durante il passeggio, ti raccontai che mio padre, pochi giorni prima della tua prima Comunione, mi aveva detto: «Annettina, cerca di meritarti un bel vestitino: il resto è una montatura».

Per il tuo spavento quasi mi sarei perfino vergognata. Ora ci rido sopra. L’unica cosa ragionevole in quella montatura era che ci si ammetteva alla Comunione solo a dodici anni. Io allora ero abbastanza presa dalla mania dei divertimenti mondani; così, senza scrupoli, mettevo in un canto le cose religiose e non diedi grande importanza alla prima Comunione. Che parecchi bambini vadano ora alla Comunione già a sette anni, ci mette in furore. Noi facciamo di tutto per dare ad intendere alla gente che ai bambini manca una cognizione adeguata. Essi devono prima commettere alcuni peccati mortali.

Allora la bianca Particola non fà più in essi gran danno, come quando nei loro cuori vivono ancora la fede, la speranza e la carità – puh! questa roba – ricevute nel Battesimo. Ti ricordi come abbia già sostenuto sulla Terra questa opinione? Ho accennato a mio padre. Egli era sovente in lite con la mamma. Te ne feci allusione solo raramente; me ne vergognavo. Cosa ridicola la vergogna del male!

Per noi qui tutto è lo stesso. I miei genitori neanche dormivano più nella medesima camera; ma io con la mamma e il papà nella camera attigua, dove poteva rincasare liberamente a qualsiasi ora. Beveva molto; in tal modo scialacquava il nostro patrimonio. Le mie sorelle erano ambedue impiegate e abbisognavano esse stesse, dicevano, del denaro che guadagnavano. La mamma cominciò a lavorare per guadagnare qualche cosa. Nell’ultimo anno di vita, papà picchiava spesso la mamma, quando lei non gli voleva dar nulla. Verso di me, invece, fu sempre amorevole.

Un giorno – te l’ho raccontato e tu, allora, ti sei urtata del mio capriccio (di che cosa non ti sei urtata nei miei riguardi?) – un giorno dovette portare indietro, per ben due volte, le scarpe comprate, perché la forma e i tacchi non erano per me abbastanza moderni. La notte in cui mio padre fu colpito da apoplessia mortale, avvenne qualche cosa che io per timore di un’interpretazione disgustosa non riuscii a confidarti. Ma ora devi saperlo. È importante per questo: allora, per la prima volta, fui assalita dal mio spirito tormentatore attuale. Dormivo in una camera con mia madre: i suoi respiri regolari dicevano il suo profondo sonno. Quand’ecco mi sento chiamare per nome. Una voce ignota mi dice: «Che sarà se muore papà»?

L’amore nelle anime in stato di grazia
Non amavo più mio padre, dacché trattava così villanamente la mamma; come del resto non amavo fin d’allora assolutamente nessuno, ma ero solamente, affezionata ad alcune persone che erano buone verso di me. L’amore senza speranza di contraccambio terreno vive solo nelle anime in stato di Grazia. E io non lo ero. Così risposi alla misteriosa domanda senza darmi conto donde venisse: «Ma non muore mica»! Dopo una breve pausa, di nuovo la stessa domanda chiaramente percepita. «Ma non muore mica»! mi scappò ancora di bocca, bruscamente. Per la terza volta fui richiesta: «Che sarà se muore papà»? Mi si presentò alla mente come papà spesso veniva a casa piuttosto ubriaco, strepitava, maltrattava la mamma e come egli ci aveva messo in una condizione umiliante dinanzi alla gente. Perciò gridai indispettita: «E gli sta bene»! Allora tutto tacque.

La mattina seguente, quando la mamma volle mettere in ordine la stanza del babbo, trovò la porta chiusa a chiave. Verso mezzogiorno si forzò la porta. Mio padre, mezzo vestito, giaceva cadavere sul letto. Nell’andare a prendere la birra in cantina doveva essersi buscato qualche accidente. Era già da lungo tempo malaticcio. Marta (***) e tu mi avete indotta ad entrare nell’Associazione delle Giovani. Veramente non ho mai nascosto che trovavo abbastanza intonate con la moda parrocchiale le istruzioni delle due direttrici, le signore (***). I giochi erano divertenti. Come sai, vi ebbi subito una parte direttiva. Ciò mi andava a genio. Anche le gite mi piacevano.

Mi lasciai perfino indurre alcune volte ad andare alla Confessione e alla Comunione. A dire il vero, non avevo nulla da confessare. Pensieri e discorsi per me non avevano importanza. Per azioni più grossolane, non ero abbastanza corrotta. Tu mi ammonisti una volta: «Anna, se non preghi ti dannerai»! Io pregavo davvero poco, e anche questo solo svogliatamente. Allora tu avevi purtroppo ragione. Tutti coloro che bruciano nell’inferno non hanno pregato o non hanno pregato abbastanza.

Il primo passo verso Dio
La preghiera è il primo passo verso Dio. E rimane il passo decisivo. Specialmente la preghiera a Colei che fu Madre di Cristo, il nome della quale noi non nominiamo mai. La devozione a Lei strappa al demonio innumerevoli anime, che il peccato gli consegnerebbe infallibilmente nelle mani. Proseguo il racconto consumandomi d’ira. È solo perché devo. Pregare è la cosa più facile che l’uomo possa fare sulla Terra. E proprio a questa cosa facilissima Dio ha legato la salvezza di ognuno.

A chi prega con perseveranza Egli, a poco a poco, dà tanta luce, lo fortifica in maniera tale che alla fine anche il peccatore più impantanato si può definitivamente rialzare. Fosse pure ingolfato nella melma fino al collo. Negli ultimi tempi della mia vita non ho più pregato come di dovere, e così mi sono privata delle grazie, senza le quali nessuno può salvarsi. Qui non riceviamo più nessuna grazia. Anzi, quand’anche le ricevessimo, le rifiuteremmo cinicamente. Tutte le fluttuazioni dell’esistenza terrena sono cessate in quest’altra vita. Da voi, sulla Terra, l’uomo può salire dallo stato di peccato allo stato di grazia e dalla grazia cadere nel peccato, spesso per debolezza, talvolta per malizia.

Con la morte questo salire e scendere finisce, perché ha la sua radice nella imperfezione dell’uomo terreno. Ormai abbiamo raggiunto lo stato finale. Già col crescere degli anni, i cambiamenti divengono più rari. È vero, fino alla morte si può sempre rivolgersi a Dio o rivolgergli le spalle. Eppure, quasi trascinato dalla corrente, l’uomo, prima del trapasso, con gli ultimi deboli resti della volontà, si comporta come era abituato in vita. La consuetudine, buona o cattiva, diviene una seconda natura. Questa lo trascina con sé. Così avvenne anche a me. Da anni vivevo lontana da Dio. Per questo, nell’ultima chiamata della grazia mi risolvetti contro Dio. Non fu il fatto che peccassi spesso a esser fatale per me, ma che io non volli più risorgere. Tu mi hai più volte ammonita di ascoltare le prediche, di leggere libri di pietà. «Non ho tempo», era la mia risposta ordinaria.

Non ci mancava altro per aumentare la mia incertezza interna! Del resto, devo constatare questo: dal momento che la cosa era ormai così avanzata, poco prima della mia uscita dall’Associazione delle Giovani, mi sarebbe riuscito enormemente gravoso mettermi su un’altra via. Io mi sentivo malsicura ed infelice. Ma davanti alla conversione si ergeva una muraglia. Tu non lo devi aver sospettato. Tu te l’eri rappresentata così semplice, quando un giorno mi dicesti: «Ma fa una buona confessione, Anna, e tutto è a posto». Io sentivo che sarebbe stato così. Ma il mondo, il demonio, la carne mi tenevano già troppo saldamente nei loro artigli.

Il demonio influisce sulle persone
All’influsso del demonio non credetti mai. E ora attesto che egli influisce gagliardamente sulle persone che si trovano nella condizione in cui mi trovavo io allora. Soltanto molte preghiere, di altri e di me stessa, congiunte con sacrifici e sofferenze, mi avrebbero potuta strappare da lui. E anche ciò, a poco a poco. Se ci sono pochi ossessi esternamente, di ossessi internamente ce n’è un formicaio. Il demonio non può rapire la libera volontà a coloro che si danno al suo influsso.

Ma in pena della loro, per dir così, metodica apostasia da Dio, questi permette che il maligno si annidi in essi. Io odio anche il demonio. Eppure egli mi piace, perché cerca di rovinare voialtri; odio lui e i suoi satelliti, gli spiriti caduti con lui al principio del tempo. Essi si contano a milioni. Girovagano per la Terra, densi come uno sciame di moscerini, e voi neanche ve ne accorgete. Non tocca a noi riprovati di tentarvi; questo è ufficio degli spiriti decaduti. Veramente, ciò accresce ancor più il tormento ogni volta che essi trascinano quaggiù all’inferno un’anima umana.

Ma che cosa non fà l’odio? Benché io camminassi per sentieri lontani da Dio, Dio mi seguiva. Preparavo la via alla grazia con atti di carità naturale, che compivo non di rado per inclinazione del mio temperamento. Talvolta, Dio mi attirava in una chiesa. Allora sentivo come una nostalgia. Quando curavo la mamma malaticcia, nonostante il lavoro d’ufficio durante il giorno, e in certo modo mi sacrificavo davvero, questi allettamenti di Dio agivano potentemente. Una volta, nella chiesa dell’ospedale, in cui tu mi avevi condotta durante la pausa del mezzogiorno, mi venne qualcosa addosso che sarebbe bastato un solo passo per la mia conversione: io piansi!

Ma poi la gioia del mondo passava di nuovo come un torrente sopra la grazia. Il grano soffocava tra le spine.

L’ultimo rifiuto
Con la dichiarazione che la religione è affare di sentimento, come si diceva sempre in ufficio, cestinai anche questo invito della grazia come tutti gli altri. Una volta tu mi rimproverasti perché invece di una genuflessione fino a terra, feci appena un informe inchino, piegando il ginocchio. Tu lo ritenesti un atto di pigrizia. Non sembrasti neppur sospettare che io fin d’allora non credevo più nella presenza di Cristo nel SS.mo Sacramento.

Ora ci credo, ma solo naturalmente, come si crede in un temporale di cui si scorgono gli effetti. Intanto mi ero costruita io stessa una religione a modo mio. Sostenevo l’opinione, che da noi in ufficio era comune, che l’anima dopo la morte risorga in un altro essere. In tal modo continuerebbe a pellegrinare senza fine. Con ciò, l’angosciosa questione dell’al di là era insieme messa a posto e resa a me innocua. Perché tu non mi hai ricordato la parabola del ricco Epulone e del povero Lazzaro, in cui il narratore, Cristo, manda, immediatamente dopo la morte, l’uno all’inferno e l’altro in paradiso?…

Del resto, che cosa avresti ottenuto? Nulla di più che con gli altri tuoi discorsi di bigottismo! A poco a poco, mi creai io stessa un dio; sufficientemente dotato da essere chiamato «dio»; lontano abbastanza da me, da non dover mantenere nessuna relazione con Lui; vago abbastanza da lasciarsi, secondo il bisogno, senza mutare la mia religione, paragonare a un dio panteistico del mondo, oppure da lasciarsi poetizzare come un dio solitario.

Questo dio non aveva nessun inferno da infliggermi. Lo lasciavo in pace. In ciò consisteva la mia adorazione per Lui. Ciò che piace si crede volentieri. Nel corso degli anni mi tenni abbastanza convinta della mia religione. In questo modo si poteva vivere. Una cosa soltanto mi avrebbe spezzato la cervice: un lungo, profondo dolore. E questo dolore non venne! Comprendi ora cosa vuol dire: «Dio castiga quelli che ama»! Era una domenica di luglio, quando l’Associazione delle Giovani organizzò una gita a (***). La gita mi sarebbe piaciuta. Ma questi insulsi discorsi, quel fare da bigotti!

Un altro simulacro ben diverso da quello della Madonna di (***) stava da poco tempo sull’altare del mio cuore. L’aitante Max (***) del negozio attiguo. Poco tempo prima, avevamo scherzato assieme più volte. Appunto per quella domenica egli mi aveva invitata ad una gita. Quella con cui andava di solito, giaceva malata all’ospedale. Egli aveva ben capito che gli avevo messo gli occhi addosso. Sposarlo non ci pensavo allora.

Era bensì agiato, ma si comportava troppo gentilmente con tutte le ragazze. E io, fino a quel tempo, volevo un uomo che appartenesse unicamente a me. Non solo essere moglie, ma moglie unica. Un certo galateo naturale, infatti, l’ebbi sempre. Nella suaccennata gita, Max si profuse in gentilezze. Eh! già, non si tennero mica delle conversazioni pretesche come tra voialtre!

Dio «pesa» con precisione
Il giorno seguente, in ufficio, tu mi facesti dei rimproveri, perché non ero venuta con voi a (***). lo ti descrissi il mio divertimento di quella domenica. La tua prima domanda fu: «Sei stata alla Messa»? Sciocchina! Come potevo, dato che la partenza era già fissata per le sei? Sai ancora come io, eccitata, aggiunsi: «Il buon Dio non ha una mentalità così piccina come i vostri pretacci»! Ora devo confessare: Dio, nonostante la Sua infinita bontà, pesa le cose con maggior precisione che tutti i preti.

Dopo quella giornata con Max, venni ancora una volta nell’Associazione delle Giovani: a Natale, per la celebrazione della festa. C’era qualche cosa che mi allettava a tornare. Ma internamente mi ero già allontanata da voialtre. Cinema, ballo, gite si avvicendavano senza tregua. Max e io bisticciammo alcune volte, ma seppi incatenarlo di nuovo a me. Molestissima mi riuscì l’altra amante, che tornata dall’ospedale si comportò come un’ossessa. Veramente per mia fortuna: poiché la mia nobile calma fece potente impressione su Max, che finì col decidere che io fossi la preferita.

Avevo saputo rendergliela odiosa, parlando freddamente: all’esterno positiva, nell’interno vomitando veleno. Tali sentimenti e tale contegno preparano eccellentemente per l’inferno. Sono diabolici nel più stretto senso della parola. Perché ti racconto queste cose? Per riferire come io mi staccai definitivamente da Dio. Non già del resto, che tra me e Max si fosse arrivati molto spesso fino agli estremi della familiarità. Comprendevo che mi sarei abbassata ai suoi occhi, se mi fossi lasciata andare del tutto, prima del tempo; perciò, mi seppi trattenere.

Ma in sé, ogni volta che lo ritenevo utile, ero sempre pronta a tutto. Dovevo conquistare Max. A tale scopo, nulla era troppo caro. Inoltre, a poco a poco, ci amavamo possedendo ambedue non poche preziose qualità, che ci facevano stimare vicendevolmente. lo ero abile, capace, di piacevole compagnia. Così mi tenni saldamente in mano Max e riuscii, almeno negli ultimi mesi prima del matrimonio, a essere l’unica a possederlo.

Mi ritenevo cattolica…
In ciò consistette la mia apostasia da Dio: elevare una creatura a mio idolo. In nessuna cosa può avvenire questo, in modo che abbracci tutto, come nell’amore di una persona dell’altro sesso, quando quest’amore rimane arenato nelle soddisfazioni terrene. È questo che forma la sua attrattiva, il suo stimolo e il suo veleno. L’«adorazione» che io tributavo a me stessa nella persona di Max divenne per me religione vissuta. Era il tempo in cui in ufficio mi scagliavo velenosa contro i chiesaioli, i preti, le indulgenze, il biascichio dei rosari e simili sciocchezze.

Tu hai cercato, più o meno argutamente, di prendere le difese di tali cose. Apparentemente, senza sospettare che nel più intimo di me non si trattava, in verità, di queste cose; io cercavo piuttosto un sostegno contro la mia coscienza. Allora avevo bisogno di un tale sostegno per giustificare anche con la ragione la mia apostasia. In fondo in fondo, mi rivoltavo contro Dio. Tu non lo comprendesti; mi ritenevo ancora cattolica. Volevo anzi essere chiamata così; pagavo perfino le tasse ecclesiastiche. Una certa «contro-assicurazione», pensavo, non poteva nuocere. Le tue risposte può darsi alle volte abbiano colpito nel segno. Su di me non facevano presa, perché tu non dovevi avere ragione.

A causa di queste relazioni falsate fra noi due, fu meschino il dolore del nostro distacco, allorché ci separammo in occasione del mio matrimonio. Prima dello sposalizio mi confessai e mi comunicai ancora una volta. Era prescritto. lo e mio marito su questo punto la pensavamo ugualmente. Perché non avremmo dovuto compiere questa formalità? Anche noi la compimmo come le altre formalità. Voi chiamate indegna una tale Comunione. Ebbene, dopo quella Comunione «indegna», io ebbi più calma nella coscienza. Del resto fu anche l’ultima. La nostra vita coniugale trascorreva, in genere, quanto mai in grande armonia. Su tutti i punti di vista noi eravamo dello stesso parere. Anche in questo: che non volevamo addossarci il peso dei figli. Veramente mio marito ne avrebbe volentieri voluto uno; non di più, si capisce. Alla fine io seppi distoglierlo anche da questo desiderio.

Vestiti, mobili di lusso, ritrovi da tè, gite e viaggi in auto e simili distrazioni mi importavano di più. Fu un anno di piacere sulla Terra quello trascorso tra il mio matrimonio e la mia repentina morte. Ogni domenica andavamo fuori in auto, oppure facevamo visite ai parenti di mio marito. Essi galleggiavano alla superficie dell’esistenza, né più né meno di noi. Internamente, si capisce, non mi sentii mai felice, per quanto esternamente ridessi.

C’era sempre dentro di me qualche cosa d’indeterminato, che mi rodeva. Avrei voluto che dopo la morte, la quale naturalmente doveva essere ancora molto lontana, tutto fosse finito. Ma è proprio così, come un giorno, da bambina, sentii dire in una predica: che Dio premia ogni opera buona che uno compie e, quando non la potrà ricompensare nell’altra vita, lo farà sulla Terra. Inaspettatamente, ebbi un’eredità dalla zia Lotte. A mio marito riuscì felicemente di portare il suo stipendio a una cifra notevole. Così potei sistemare la nuova abitazione in modo attraente.

La religione non mandava più che da lontano la sua voce, scialba, debole ed incerta. I caffè della città, gli alberghi, in cui andavamo durante i viaggi, non ci portavano certamente a Dio. Tutti coloro che frequentavano quei luoghi, vivevano, come noi, dall’esterno all’interno, non dall’interno all’esterno. Se nei viaggi delle ferie visitavamo qualche chiesa, cercavamo di ricrearci nel contenuto artistico delle opere.

L’alito religioso che spiravano, specialmente quelle medioevali, sapevo neutralizzarlo col criticare qualche circostanza accessoria: un frate converso impacciato o vestito in modo non pulito, che ci faceva da cicerone; lo scandalo che dei monaci, i quali volevano passare per pii, vendessero liquori; l’eterno scampanio per le sacre funzioni, mentre non si tratta che di far soldi…

Il fuoco dell’inferno
Così seppi continuamente scacciare da me la grazia ogni volta che bussava. Lasciavo libero sfogo al mio malumore in modo particolare su certe rappresentazioni medioevali dell’inferno nei cimiteri o altrove, nelle quali il demonio arrostisce le anime in braghe rosse e incandescenti, mentre i suoi compagni, dalle lunghe code, gli trascinano nuove vittime.

Clara! L’inferno si può sbagliare a disegnarlo, ma non si esagera mai! Il fuoco dell’inferno l’ho sempre preso di mira in modo speciale. Tu lo sai come durante un alterco, in proposito, ti tenni una volta un fiammifero sotto il naso e ti dissi con sarcasmo: «Ha questo odore»? Tu spegnesti in fretta la fiamma. Qui non la spegne nessuno. lo ti dico: il fuoco di cui si parla nella Bibbia, non significa tormento della coscienza. Fuoco è fuoco! È da intendersi letteralmente ciò che ha detto Lui: «Via da me, maledetti, nel fuoco eterno»! Letteralmente. Come può lo spirito essere toccato da fuoco materiale, domanderai. Come può l’anima tua soffrire sulla terra quando ti metti il dito sulla fiamma? Difatti non brucia l’anima; eppure che tormento ne prova tutto l’individuo! In modo analogo noi qui siamo spiritualmente legati al fuoco, secondo la nostra natura e secondo le nostre facoltà.

L’anima nostra è priva del suo naturale battito d’ala; noi non possiamo pensare ciò che vogliamo né come vogliamo. Non meravigliarti di queste mie parole. Questo stato, che a voialtri non dice nulla, mi riarde senza consumarmi. Il nostro maggior tormento consiste nel sapere con certezza che noi non vedremo mai Dio. Come può questo tormentare tanto, dal momento che uno sulla Terra rimane così indifferente? Fintanto che il coltello giace sulla tavola, ti lascia fredda. Si vede quanto è affilato, ma non lo si prova. Immergi il coltello nella carne e ti metterai a gridare dal dolore.

Adesso noi sentiamo la perdita di Dio, prima la pensavamo soltanto. Non tutte le anime soffrono in misura uguale. Con quanta maggior cattiveria e quanto più sistematicamente uno ha peccato, tanto più grave pesa su di lui la perdita di Dio e tanto più lo soffoca la creatura di cui ha abusato. I cattolici dannati soffrono di più che quelli di altre religioni, perché essi per lo più ricevettero e calpestarono più grazie e più luce. Chi più seppe, soffre più duramente di chi conobbe meno. Chi peccò per malizia, patisce più acutamente di chi cadde per debolezza.

 L’abitudine: una seconda natura
Mai nessuno patisce più di quello che ha meritato. Oh, se non fosse vero ciò, io avrei un motivo d’odiare! Tu mi dicesti un giorno che nessuno va all’inferno senza saperlo: ciò sarebbe stato rivelato a una santa. Io me ne risi. Ma poi mi trincerai dietro questa dichiarazione: «Così, in caso di necessità, rimarrà abbastanza tempo per cambiare idea», mi dicevo segretamente. Quel detto è giusto. Veramente prima della mia subitanea fine, non conobbi l’inferno com’è. Nessun mortale lo conosce. Ma io ne avevo la piena coscienza: «Se muori, te ne vai nel mondo di là dritta come una freccia contro Dio. Ne porterai le conseguenze».

lo non feci dietro-front, come ho già detto, perché trascinata dalla corrente dell’abitudine, spinta da quella conformità per cui gli uomini, quanto più invecchiano, tanto più agiscono in una stessa direzione. La mia morte avvenne così. Una settimana fa. Parlo secondo il vostro computo, perché, rispetto al dolore, potrei dire benissimo che sono già dieci anni che brucio nell’inferno. Una settimana fa, dunque, mio marito e io facemmo di domenica una gita, l’ultima per me. Il giorno era spuntato radioso. Mi sentivo bene quanto mai.

M’invase un sinistro sentimento di felicità, che serpeggiò in me per tutta la giornata. Quand’ecco all’improvviso, nel ritorno, mio marito fu abbacinato da un’auto che veniva di volata. Perdette il controllo. «Gesù», mi scappò dalle labbra con un brivido. Non come preghiera, solo come grido. Un dolore straziante mi compresse tutta. In confronto con quello presente una bagatella. Poi perdetti i sensi. Strano!

Quella mattina era sorto in me, in modo inspiegabile, questo pensiero: «Tu potresti ancora una volta andare a Messa». Suonava come un’implorazione. Chiaro e risoluto, il mio «no» trovò il filo dei pensieri. «Con queste cose bisogna farla finita una volta. Mi addosso tutte le conseguenze»! Ora le porto. Ciò che avvenne dopo la mia morte, già lo saprai. La sorte di mio marito, quella di mia madre, ciò che accadde del mio cadavere e lo svolgimento del mio funerale mi sono noti nei loro particolari mediante cognizioni naturali che noi qui abbiamo. Quello, del resto, che succede sulla Terra, noi lo sappiamo solo nebulosamente.

Ma ciò che in qualche modo ci tocca da vicino, lo conosciamo. Così vedo anche dove tu soggiorni. Io stessa mi svegliai improvvisamente dal buio, nell’istante del mio trapasso. Mi vidi come inondata da una luce abbagliante. Fu nel luogo medesimo dove giaceva il mio cadavere. Avvenne come in un teatro, quando nella sala d’un tratto si spengono le luci, il sipario si divide rumorosamente e si apre una scena inaspettata orribilmente illuminata. La scena della mia vita. Come in uno specchio l’anima mia si mostrò a sè stessa.
Le grazie calpestate dalla giovinezza fino all’ultimo «no» di fronte a Dio. lo mi sentii come un assassino al quale, durante il processo giudiziario, viene portata dinanzi la sua vittima esanime. Pentirmi? Mai!… Vergognarmi? Mai! Però non potevo neppure resistere sotto gli occhi di Dio da me rigettato. Non mi rimaneva che una cosa: la fuga. Come Caino fuggì dal cadavere di Abele, così l’anima mia fu spinta da quella vista di orrore. Questo fu il giudizio particolare: l’invisibile Giudice disse: «Via da me»! Allora la mia anima, come un’ombra gialla di zolfo, precipitò nel luogo dell’eterno tormento…

Conclude Clara:
La mattina, al suono dell’Angelus, ancora tutta tremante per la notte spaventosa, mi alzai e corsi per le scale nella cappella. Il cuore mi pulsava fin sulla gola. Le poche ospiti, inginocchiate vicino a me, mi guardarono, ma forse pensarono che fossi così eccitata per la corsa fatta giù per le scale. Una signora bonaria di Budapest, che mi aveva osservato, mi disse dopo sorridendo: «Signorina, il Signore vuol essere servito con calma, non di corsa»!

Ma poi si accorse che qualcosa d’altro mi aveva eccitato e mi teneva ancora in agitazione. E mentre la signora mi rivolgeva altre buone parole, io pensavo: «Dio solo mi basta»! Sì, Egli solo mi deve bastare in questa e nell’altra vita. Voglio un giorno poterlo godere in Paradiso, per quanti sacrifici mi possa costare in Terra. Non voglio andare all’inferno!.

 

Fonte web: la luce di Maria

https://www.google.com/amp/s/www.lalucedimaria.it/clara-non-pregare-per-me-sono-dannata-testimonianza-scioccante/amp/

 

https://www.ilsorrisodimaria.it

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